5. La lavatrice
Discorso sulle donne da pronunciare alla biblioteca Pablo Neruda di Albinea il 24 marzo del 2013
5. La lavatrice
Quello che trovate qua sotto è il discorso che dovevo fare il giorno che ho fatto l’incidente del 2013, quello che poi si è diffusa la voce che ero morto.
Contiene poche cose inedite, un po’ di cose che avevo pubblicato prima del 2013, un po’ di cose che ho pubblicato dopo. Si intitola La lavatrice, il sottotitolo è Discorso sulle donne, ho aggiunto due parole alla fine.
Buongiorno. Vi ringrazio per l’invito, sono molto contento di venire in questa biblioteca di Albinea dove son già stato qualche anno fa, il giorno che è stata inaugurata, a tenere un discorso sui soldi, all’epoca, e dove poi sono tornato quest’estate, da spettatore di una manifestazione organizzata da Pippo Civati dove, tra gli altri, c’era una signora che ha parlato del Sempre più temibile problema del rischio idraulico e del dissesto idrogeologico che mi ha talmente colpito che nel mio prossimo romanzo c’è un personaggio che si chiama Il sempre più temibile problema del rischio idraulico e del dissesto idrogeologico.
E quindi, dicevo, sono molto contento di essere qui, e lo sono in particolar modo per il tema che mi è stato assegnato per questo discorso che è la donna; cioè mi hanno chiesto di scrivere un discorso che durasse cinquanta minuti e che parlasse della donna, che io, devo dire, di discorsi io ne ho scritti su molti argomenti, sui soldi, appunto, sulle biblioteche, sulle biciclette, sulla vergogna, sulla dittatura, sulla razza, su Cesare Zavattini, sulla moda nella letteratura russa dell’ottocento, per via che ho studiato russo, sul museo d’arte moderna della città di Bologna spiegato ai ciechi, sulle bandiere anarchiche, sull’Orlando Furioso, sul liscio, sulle lingue inventate, sulla traduzione, sulle braghe, sulla figura paterna negli asili nido, sulla rivoluzione, sulla fantascienza, su Birkenau, sulla Germania est, sul dialetto, su Anna Karenina e anche su altri argomenti che non mi ricordo ma il tema che mi è stato affidato questa volta, devo dire, mi sembra sia una specie di tema guida che, se ne sapessi qualcosa, forse questo discorso potrebbe riassumere tutti gli altri discorsi che ho fatto fino a questo momento, peccato che non se so niente.
Perché io, questi discorsi, il primo discorso che ho fatto lo ho fatto quasi dieci anni fa, il 5 aprile del 2003, a un convegno, a Venezia, sul tema la letteratura italiana del 900 dagli indifferenti ai cannibali, che è stato il primo che ho scritto, perché prima, fino a quel momento lì, io di solito quando mi invitavano ai convegni e mi chiedevano di dire qualcosa su un qualche argomento specifico io andavo lì e improvvisavo, parlavo a braccio, magari mi segnavo su un foglio una scaletta delle cose che volevo dire solo che poi, a me, per come è organizzato il mio cervello, credo, mi succede che spesso, quando parlo, mi viene da aprire delle parentesi, e allora quando andavo a questi convegni che parlavo a braccio mi succedeva anche lì, e allora aprivo la parentesi e andavo dietro al pensiero che c’era nella parentesi e poi, quando la chiudevo, che avrei dovuto ricominciare, mi succedeva spesso che non mi ricordavo quello che stavo dicendo prima, della parentesi, e allora, avevo davanti magari venti persone, che eran lì che aspettavano, che pendevano dalle mie labbra, come si dice, e io, non sapevo cosa dire. Eran momenti che la mia testa era presa da due impegni, primo, cercare di ricordarmi quello che stavo dicendo prima di aprire la parentesi, secondo, cercare di riempi in una qualche maniera questi silenzi che un silenzio, con un pubblico anche solo dieci persone che stanno pendendo dalle tue labbra non è mica una cosa bella, farli star a pendere per niente anche per soli dieci secondi che sono lunghissimi, in pubblico, di silenzio, e allora, io, questi secondi di silenzio cercavo di riempirli con dei rumori che facessero capire che presto il mio pensiero sarebbe ripartito con la stessa velocità di prima e questi rumori erano praticamente delle cose del genere: «Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee». Oppure: «Mmmmmmmmmm», e poi, se dopo dieci secondi non mi era venuto in mente quello che stavo dicendo, io, sopraffatto dall’imbarazzo, dicevo la prima cosa che mi veniva in mente, e la prima cosa che mi veniva in mente, di solito, non aveva niente a che fare con la cosa che stavo dicendo prima, e io finivo questi discorsi che avevo nella testa il pensiero di cos’è che averi dovuto dire e quando uscivo da queste sale da conferenze dove tenevo questi discorsi di solito poi succedeva che, mettevo il piede sulla scala e venivo assalito da quello che i francesi chiamano Esprit de l’escalier, cioè mi venivano in mente le cose che avrei dovuto che avrei fatto una cosa bella figura, se le avessi dette, solo che non le avevo dette avevo lasciato a metà due o tre discorsi era stata un’esperienza mortificante. Ecco. Dopo, appunto, dieci anni fa, nell’aprile del 2003, mi hanno invitato a questo convegno a Venezia sulla letteratura italiana del Novecento Dagli indifferenti ai Cannibali, mi avevano chiesto un intervento di venti minuti e io, che né degli indifferenti, romanzo di Moravia del 1929, né di Gioventù cannibale, antologia di Einaudi stile libero del 1996, né, in generale, della letteratura italiana del 900 sapevo praticamente niente, io ho pensato che dovendo parlare di una cosa che non ne sapevo praticamente niente, mi sarei attaccato a tutte le possibili divagazioni che mi venivano in mente sarebbe stato forse un discorso composto prevalentemente di «Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee», oppure: «Mmmmmmmmmm» e allora avevo pensato Sai cosa faccio? Io questo discorso sulla letteratura italiana del novecento dagli indifferenti ai cannibali me lo scrivo, e avevo fatto così, me l’ero scritto, e scrivendomelo avevo potuto aprire tutte le parentesi che volevo e in venti minuti avevo raccontato il niente che sapevo della letteratura italiana del novecento dagli indifferenti ai cannibali e ero uscito da quella sala dell’università Ca’ Foscari di Venezia che ero contento, non era stata la solita esperienza mortificante, niente esprit de l’escalier e allora avevo pensato che ci avrei fatto sempre così, che il nulla che sapevo dei vari argomenti che mi chiamavano a trattare l’avrei scritto, invece di improvvisarlo, e così ho fatto fino ad oggi che oggi però è un caso particolare che voi forse vi chiederete «Come mai è un caso particolare?», adesso ve lo spiego.
Allora io, ho questa cosa che non so se molti di voi la condividono che è la passione per il nulla, cioè io non ascolto molta musica ma uno dei miei pezzi musicali preferiti è un pezzo di un compositore americano che si chiama John Cage che si intitola 4’ 33” e sono quattro minuti e trentatre secondi di silenzio, io sono talmente interessato, a questa cosa, il nulla,
Quando non c’è niente da dire, o quando non si sa cosa dire, o quando non si sa cosa fare, o quando non si vede niente, o quando non si capisce niente, o quando non si sente niente, o quando non si riesce a dormire, o quando non si vuole mangiare: le astensioni di tutti i tipi, le scene mute, le fotografie sbagliate, le macchine che restano senza benzina, i sans papier, i sanculotti, i frigo vuoti, i film muti, i buchi neri, la menopausa, le notti in bianco, quando si cerca in tutte le tasche e non c’è neanche una sigaretta; i digiuni, gli anestetici, gli astemi, gli anoressici, gli scioperi; le pianure, le steppe, i deserti, la siccità, la crisi energetica, i black out, gli annulli filatelici, le amnesie, la crescita zero, le tinte unite. La calvizie. La sterilità. Il celibato e il nubilato. L’inappetenza e l’incontinenza. Il buio. Il silenzio. Il niente. Il nulla, io son talmente interessato che ho organizzato un convengo, sul nulla, 6 ore di conversazione sul nulla con dodici relatori e il convegno inspiegabilmente ha anche avuto un discreto successo tanto che l’abbiamo rifatto due volte, una volta a Ravenna una volta a Bologna e l’ultima volta, a Bologna, uno dei relatori era un editore di Faenza che ci ha raccontato che da giovane era innamorato di una ragazza che l’aveva iniziato alla pratica politica di estrema sinistra e però dopo un po’ questa ragazza l’aveva lasciato e si era sposata, con un portiere (di calcio) democristiano e aveva fatto 3 figli nel giro di pochissimi anni. Questa vicenda ha generato l’idea di un libro che è diventato il suo bestseller, della sua casa editrice, libro che si intitola Tutto quello che gli uomini sanno delle donne, ed è un libretto di un centinaio di pagine tutte bianche, che ha venduto più di centomila copie, appena uscito la CGIL di Milano, da sola, ne ha ordinate 8.000 copie, che lo regalava ai suoi associati, e anch’io, all’epoca, sarà stato il 1990, l’avevo trovato sul bancone della Feltrinelli di Parma e l’avevo comprato, e quell’editore di Faenza, però, dopo un po’ si era stancato di farlo. Gli sembrava poco serio vendere tante copie di un libro su cui non c’era scritto niente, ma a parte quello, devo dire che, avermi dato un tema del genere, la donna, a me, che sono un uomo, voi mi permettete di avere a che fare con il mio tema preferito, cioè mi avete messo a tu per tutto con il niente che io so dell’argomento che è una cosa della quale vi ringrazio.
Allora le donne, se devo dire qualcosa, io mi ricordo quando ero piccolo, in campagna, nella casa che abbiamo a Basilicanova, in provincia di Parma, vicino a Traversetolo, mia nonna, con le sue amiche, nel fresco della cucina, che stavan lì a far delle chiacchiere, cioè facevano contemporaneamente i mestieri, non so, mondavano i cornetti, che sono i fagiolini, a Parma si dicon cornetti, facevano contemporaneamente i mestieri e le chiacchiere, e io stavo lì, da solo, nel fresco della cucina, zitto, ascoltare, avrò avuto nove anni, e mi passava davanti un sacco di gente, nelle loro debolezze, e io stavo benissimo e contemporaneamente un po’ mi vergognavo, perché io ero un maschio, e quella lì era una cosa da femmine, e mi sentivo, cioè mi piaceva, ma contemporaneamente mi sentivo che non ero a casa mia, cioè ero a casa mia, ma ero in una parte della mia casa che, se ancora non mi era stata interdetta per via del fatto che ero piccolo, mi sarebbe stata interdetta, non faceva parte del mio futuro.
E infatti, pochi anni dopo, io avrei cominciato a fare le cose da uomini, a bere, a fumare, a giocare a briscola e a andare a donn, e nei locali femminili, nel quel fresco delle cucine, nella bianca meraviglia degli stenditoi, nel senso di pulito dei cassetti delle lenzuola, negli antibagni, misteriosi appartamenti di misteriose lavatrici, io mi sarei sentito, dai quattordici anni in su, come uno straniero.
Mi ricordo una volta, avevo vent'anni, ero ad Amsterdam, ero in vacanza e ero lì, perso in un quartiere residenziale, guardavo la gente che andava, veniva, impermeabili, occhiali, borse di pelle, tutti sembravan sapere benissimo quello che stavan facendo, tutti avevano una famiglia, dietro i portoni, tutti avevano una direzione, un lavoro, e io ero lì, da solo, come se fossi un austriaco, a guardare dentro la mia vacanza poco sensata che doveva durare, era meglio non pensarci, altre due settimane. Ecco, io, con le donne, per molto tempo, devo dire, ho avuto quello sguardo lì da austriaco, cioè io non sapevo cosa farmene, delle donne. Cioè sapevo che bisognava averla, una relazione con le donne, e in certe cose era anche una relazione piacevole, però non ero capace. Cioè non ero capace di stare tranquillamente, da olandese, in Olanda, ci stavo da austriaco. Adesso vi confesso una cosa che non ho mai detto a nessuno, e mi scuso di questo impulso che non voglio frenare e per la totale mancanza di pudicizia, se così si può dire, ma io, per molto tempo, dopo che, sapete con le donne, le cose che fanno gli uomini con le donne, e anche le donne con gli uomini, e anche gli uomini con gli uomini e le donne con le donne, a dire il vero, ma insomma, quella roba lì, ecco io, per molto tempo, dopo che si faceva quella cosa lì, che generalmente a me mi piaceva, non dico che non mi piacesse, ecco io per molto tempo a me mi veniva da dire, la prima cosa dopo che era successa quella cosa lì, «Che ore abbiamo fatto?», mi veniva da chiedere. Poi mi son sempre trattenuto non l’ho mai detto, però l’istinto mi portava a dire così.
Che però quello lì, l’incanto di quel posto lì, non di quello lì, dei posti femminili, c’è una poesia di un poeta che si chiama Luciano Erba, la poesia si intitola Caino e le spine e a un certo punto Erba dice: «Intorno erano cose molto femmine disinvolte ad esistere».
Ecco io, quei momenti lì, con intorno cose molto femmine, disinvolte ad esistere, io quando li incontro non perché sono un uomo, non perché sono un maschio, non mentre sto facendo il mio mestiere da maschio, quando lo facevo, adesso forse lo faccio un po’ meno, non perché mi viene, come dire, prescritto, di occuparmi delle cose femmine, ma così, per strada, ecco io, quando incontro le cose molto femmine, disinvolte ad esistere, per me è un incanto, anche se per molto tempo, non so, permettetemi di aprire una breve parentesi.
Io prima ho detto che uno dei discorsi che ho scritto è un discorso sulle braghe, che sembra una cosa strana, un discorso sulle braghe, eppure è un discorso che ho scritto, o meglio, ho sbobinato, cioè è un discorso brevissimo che è successo il contrario di quello che mi succedeva di solito con gli altri discorsi, come questo per esempio, che sono discorsi che nascono il forma scritta anche se sono destinati a essere detti, alla forma orale, quello delle braghe, invece, è nato perché m’è venuto da dirlo, e poi l’ho trascritto, l’ho sbobinato, per così dire, e il posto dove l’ho fatto è una piccola scuola, che si chiama Scuola elementare di scrittura emiliana, e che ho cominciato a fare qualche anno fa a Reggio Emilia insieme a Daniele Benati e Ugo Cornia e che adesso da qualche anno faccio in una piccola e bellissima libreria di Bologna, che si chiama Modo infoshop, e una sera, in quella libreria lì, mi è venuto da fare un discorso che poi l’ho sbobinato, cioè trascritto, e l’ho intitolato Gli specchi, e che faceva così:
Gli specchi
Ecco, a me è successa una cosa che secondo me un po’ c’entra, con il discorso. Cioè io, nel 2009, dopo sei o sette anni che non ci andavo, sono andato alla fiera del libro a Torino. Il giorno prima di andare a Torino sono andato a Parma, con mia figlia, abbiamo dormito a Parma, da mio fratello, e poi son tornato a Bologna, ho lasciato mia figlia a sua mamma, in stazione e, senza passare da casa (abito lontano dalla stazione), ho preso un treno che mi ha portato a Torino. Era tutto calcolato andava bene. Solo che, a Parma, a casa di mio fratello, mi sono macchiato i pantaloni. Allora non potevo andare a Torino star via due giorni coi pantaloni macchiati, e mio fratello mi ha prestato un paio dei suoi. Solo che erano dei pantaloni con la vita bassa, che io non mi ero mai messo, e, il mattino dopo, nel tragitto che, in autobus, porta da casa di mio fratello alla stazione di Parma, mi sono accorto che mi sembrava che mi cascassero continuamente, mi sono trovato a tirarmeli su una ventina di volte, e ho pensato che non potevo star via di casa due giorni con quella sensazione lì che ti caschino le braghe che per me è proprio una sensazione sgradevolissima. Allora quando siamo arrivati nel piazzale della stazione, mi sono accorto che era giorno di mercato, e con mia figlia siamo andati in una bancarella di cinesi ho comprato un paio di braghe cinesi. Cinque euro. Un affare. Siamo andati nel bagno della stazione, mi sono cambiato le braghe, con mia figlia che mi guardava. Siamo usciti, era tutto a posto, tranne che, d’un tratto, mi è venuto in mente che avevo lasciato lo zaino sull’autobus. Noo, ho detto a mia figlia, ho lasciato lo zaino sull’autobus. Lei mi ha guardato mi ha detto Noo. Mia figlia ha cinque anni, allora ne aveva quattro. Mi ricorderò sempre il modo in cui mi ha detto Noo. Non so perché, è stata una cosa memorabile. Fattosta che poi mi sono tastato le spalle, lo zaino ce l’avevo sulle spalle. Allora niente. Eravamo così contenti. Dopo è andato tutto come previsto, sono andato a Bologna, ho lasciato mia figlia a sua mamma, ho preso il treno, sono andato a Torino, son stato a Torino e son venuto indietro. Solo che, quelle braghe cinesi lì, che mi era sembrato che mi avessero salvato, e in un certo senso mi avevan salvato davvero, devo dire che mi sentivo a disagio, con quelle braghe lì. Con le tasche sui fianchi, e un elastico in vita e dei lacci, sia in alto che in basso, per stringerle. Ma che braghe ho? mi chiedevo continuamente. Tutti gli specchi e le superfici riflettenti eran l’occasione per veder come stavo, non ero nelle mie braghe, e continuamente pensavo a come sarebbe stato bello tornare a casa e rimettermi nelle mie braghe.
Ecco io, di solito, quando vado in giro, prendo con me dei taccuini, per scriverci sopra le cose che vedo. E uno ce l’avevo anche lì a Torino, e pensavo che mi avrebbero colpito un mucchio di cose, eran degli anni che non andavo a Torino, alla fiera del libro, ero curioso. Ecco, quando son tornato a casa, mi sono accorto che sul mio taccuino non avevo preso neanche un appunto. Ero così concentrato sulle mie braghe, e sull’effetto che facevo, che l’effetto che il mondo faceva a me non aveva quasi importanza. Ecco. Io ho l’impressione che, per scrivere, sia abbastanza importante trovar delle braghe.
Ecco. Io, con le donne, per buona parte della mia vita, devo dire, non ero nelle mie braghe. Io ero concepito per un mondo maschile, ho imparato a fare le cose da maschio, fumare, bere, giocare a pallone e andare a donne, avevo cancellato dentro di me l’incanto del fresco delle cucine e la meraviglia delle lavatrici e facevo finta di essere pronto a recitare la parte che credevo che il mondo mi avrebbe chiesto di recitare, quella del buon padre di famiglia.
Ma non solo con le donne. Cioè quello lì era un mondo, il mondo che c’era quando ero piccolo io, che secondo me era fondato, anche giuridicamente, proprio sulla figura del buon padre di famiglia, cioè il padre giusto e severo, né troppo intelligente né troppo stupido, quello che faceva le cose con la diligenza del buon padre di famiglia, cioè né troppo bene né troppo male, cioè in un modo giusto, con un metro giusto, al quale si adeguava poi tutta la famiglia, i figli, la moglie, i suoceri, le nuore, i cognati, i parenti, gli amici in visita eccetera eccetera, ecco quella figura lì, che spirava autorevolezza, che non aveva bisogno di alzare la voce perché bastava uno sguardo, un sopracciglio alzato, per produrre il silenzio, e l’ascolto, ecco quella figura lì, oggi che sono padre io, non esiste più, cioè di autorità, io, come babbo. E non è una cosa che mi dispiace, a me, dispiace più a mia figlia, secondo me.
Che io, una volta sono andato a Reggio Emilia a un convegno sull’educazione e sui diritti dei bambini e allora quando sono andato sul palco io la prima cosa che ho detto che io, l’unica relazione che ho con la scuola, e con l’educazione dei bambini, è il fatto che c’è una bambina, che ha l’avventura di esser mia figlia, che ha otto anni e fa la terza elementare e che io, nell’universo della scuola il mio ruolo, la mia funzione, il mio punto di vista, sono un ruolo, una funzione e un punto di vista marginali di uno che ho raccontato con mia figlia, che adesso ha otto anni e fa la terza elementare, una volta io avevo preso su un libro che io e mia figlia lo stavamo leggendo e era un libro di Gianni Rodari che si intitolava Fra i banchi ed era appena stato ristampato da Einaudi ragazzi e da quel libro lì, a Reggio Emilia, a quel convegno sull’educazione ai diritti, ho letto una filastrocca che faceva così: «Ho conosciuto un tale, un tale di Macerata, / che insegnava ai coccodrilli / a mangiare la marmellata. // Le Marche, però, / sono posti tranquilli, / marmellata ce n’è tanta, /ma niente coccodrilli. // Quel tale girava / per il monte e per la pianura, / in cerca di coccodrilli / per mostrare la sua bravura. // Andò a Milano, a Como, / a Lucca, ad Acquapendente: / tutti posti bellissimi, / ma coccodrilli niente. // È ancora lì che gira, / un impiego non l’ha trovato: / sa un bellissimo mestiere, / ma è sempre disoccupato», ho letto e dopo ho detto che quella filastrocca lì, sembra che non c’entri niente e invece secondo me c’entra, se avete pazienza. Perché io, ho detto, rispetto a quand’ero piccolo io, la figura centrale della famiglia di quando ero piccolo io, il buon padre di famiglia, quella figura li non esiste più, è anacronistica, e se si ripresentasse, se ricapitasse in Emilia in questi giorni un buon padre di famiglia come quelli che ho conosciuto io, con la giacca del buon padre di famiglia, e le abitudini del buon padre di famiglia, fumare in casa, e in macchina, per dire, e iniziare i figli all’uso degli alcolici, ecco secondo me un padre del genere farebbe la figura del di quel signore di Macerata di cui parla la poesia di Gianni Rodari, cioè di uno che sa un mestiere magari bellissimo ma che non serve a niente.
Solo che, ho detto, mi viene in mente una cosa che è successa con mia figlia due anni fa, che una volta lei, eravamo a casa sua, non abitiamo insieme (e già questo, di per sé, sarebbe già fuori dall’universo del buon padre di famiglia, mi sembra), e lei, in salotto, camminava sulla spalliera del divano, e io le ho detto «Secondo me non va bene, che fai così», e lei si è fermata, mi ha guardato, ma cattiva, e mi ha detto «Tu non devi dirmi Secondo me, tu devi dirmi Non va bene». Allora, ho detto lì a Reggio Emilia, mi viene forse il dubbio che qualche coccodrillo che vuol la marmellata in Italia, ancora, ce ne siano anche oggi, anche se io, proprio, di marmellata, non son capace, di darne, forse perché quand’ero piccolo io me n’han data talmente tanta, di marmellata, che mi è venuto il diabete, non solo in famiglia, anche a scuola. Io, ho detto, quando ho fatto le elementari ero contro il divorzio, perché ho fatto le elementari il periodo che c’era il referendum sul divorzio e la nostra maestra ci diceva in classe, a una classe di 30 bambini di 10 anni, che noi dovevamo convincere i nostri genitori che era bene che votassero no al divorzio perché il matrimonio era un vincolo indissolubile. Ci faceva venire in classe un frate (scuola pubblica, in Emilia Romagna, nel 1974) che ci diceva che gli uomini non potevano sciogliere i matrimoni, perché nessuno, in terra, poteva sciogliere quello che Dio aveva legato in cielo, e la maestra faceva uscire il frate e poi ci diceva «Ecco, cosa vi avevo detto io?». Quella signora lì, ho saputo trent’anni dopo, era stata lasciata dal marito, e credo che non avesse nessuna colpa, lei, poveretta, credo che fosse lei che aveva patito più di tutti, questo fatto, solo che la violenza che, in conseguenza del suo dolore, aveva fatto a una classe di trenta bambini di dieci anni, io me la ricordo ancora come una violenza insopportabile, ed è forse per quello che quando sento parlare di educare ai valori io penso che ognuno, i valori, dovrebbe trovarseli per conto suo, e mia figlia io credo che dovrà far la fatica, tremenda, mi rendo conto, di costruirselo da sola, l’angolo dei suoi valori, io posso solo accompagnarla, ho detto, e mi è venuta in mente una volta che lei, eravamo in bicicletta, era ancora piccola, avevamo uno di quei seggiolini che si metton davanti, sul manubrio, io non la vedevo in faccia ma sentivo quel che diceva e a un certo punto l’ho sentita dire «Io non le voglio, le righe», e io, non capivo, quel che diceva, le ho chiesto «Che righe?», e lei mi ha detto «Le righe che ci son sulla faccia», e io ho capito che voleva dire le rughe e le ho detto «Ah, va bene, non c’è problema, ci son dei medici che ti addormentano, quando sei grande che cominciano a venirti le righe, ti taglian la faccia, ti cuciono che non si vede niente quando ti svegli hai una pelle liscissima che sei senza righe», le ho detto, e lei ha taciuto un po’ e poi alla fine mi ha detto «No, io le voglio, le righe», e questo è l’unico modo, secondo me, in cui sono capace di influenzare i valori di mia figlia, facendo come se non li influenzavo e mi è venuta in mente un’altra poesia di Rodari, una poesia che è abbastanza famosa che si intitola La mia mucca e che fa così: «La mia mucca è turchina / si chiama Carletto / le piace andare in tram / senza pagare il biglietto. // Confina a nord con le corna, / a sud con la coda. / Porta un vecchio cappotto / e scarpe fuori moda. // La sua superficie / non l’ho mai misurata, / dev’essere un po’ meno / della Basilicata. // La mia mucca è buona / e quando crescerà / sarà la consolazione / di mamma e di papà. // (Signor maestro, il mio tema / potrà forse meravigliarla: / io la mucca non ce l’ho, / ho dovuto inventarla.)», che è una poesia che quando l’ho letta io, da piccolo, mi era piaciuta, e quando l’ha riletta mia figlia, pochi giorni fa, è piaciuta anche a lei, e io non so il motivo per cui ci è piaciuta, da piccoli, però una delle cose per cui mi piace adesso è che dice una cosa che non si poteva tanto dire, a scuola, cioè che quel che si scrive nei temi, di solito, sono cose inventate, cioè relativizza il portato valoriale della scuola, se così si può dire, e per via dei valori, ho detto, io forse a scuola preferirei che a mia figlia le dessero degli strumenti, anziché dei valori.
Che adesso uno potrebbe obiettare Cosa ci interessa a noi di tua figlia, te ci devi parlare di donne, perché non ci parli, per esempio, del Secondo sesso, di Simone de Beauvoir, e avete ragione, potrei anche parlarvi del Secondo sesso di Simone de Beauvoir, che ce l’ho anche, a casa, l’ho comprato vent’anni fa, quando facevo l’università, non l’ho mai letto, non che non mi piaccia, Simone de Beauvoir, mi piace, Memorie di una ragazza per bene, un libro bellissimo, mi ricordo ancora quando lei andava a leggere nel prato, al mattino, prima ancora di far colazione, e «intorno erano cose molto femmine, disinvolte ad esistere», sì questo discorso poteva essere l’occasione per leggere finalmente un altro libro probabilmente bellissimo, Il secondo sesso, di Simone di Beauvoir, solo che non l’ho letto, e allora vi parlo di mia figlia, che voi direte «Ma cosa c’entra?», eh, c’entra per il fatto che mia figlia, anche se ha otto anni, anche lei è una donna, e io, prima che nascesse, ero convinto che sarebbe stato un maschio perché io, noi siam tre fratelli, a casa nostra i bambini siamo abituati a pensare che saranno dei maschi, allora quando è venuta fuori una femmina io non ero tanto abituato, solo che poi mi ricordo, perché dopo un paio d’anni, sono andato a Milano a trovare una mia amica che aveva appena avuto un bambino e quando son stato a casa sua suo figlio, che era piccolo, avrà avuto tre mesi, si è cagato adosso, come succede ai bambini di tre mesi, e lei l’ha cambiato, e io ero lì che guardavo e ho visto il grillo, a Parma lo chiamiamo il grillo e ho pensato “A cosa serve, quel bagaglio li?”, mi sembrava di troppo, mi sono abituato presto, a pensare che i figli son delle femmine, e, a questo proposito, volevo inserire un ultima parentesi, piuttosto lunga, questa qua, viene da un romanzo che si chiama Mi compro una Gilera, che è la seconda parte del celebre romanzo parmigiano Putost che tor moiera, am compor na Gilera, è il primo capitolo e si intitola Le scimmie, e fa così:
Ho avuto tanti dispiaceri, nei quarantatre anni che son stato al mondo, ma il dispiacere più grosso, mi sembra, l’ho avuto la scorsa settimana, giovedì, e è durato con intensità crescente fino a lunedì, poi un po’ è calato, però dura ancora, ogni tanto mi torna un po’ addosso.
Una volta, due mesi fa, ero andato a trovare mia figlia, eravam stati al parco, dal leone, dice lei, nel parco dove andavamo prima c’era un leone di ghisa, credo, di ghisa, c’era la statua di un leone che a lei piaceva tantissimo quando mi vedeva diceva Andiamo dal leone.
Per lei vedermi voleva dire andare al parco, e andare al parco voleva dire andare dal leone e anche adesso che lei ha traslocato e quando la vado a trovare andiamo in un altro parco dove di statue e di leoni non ce ne sono, lei continua a dire che andiamo dal leone.
Una volta, due mesi fa, eravamo in questo parco eravamo appena arrivati eravamo seduti su una panchina che mangiavamo il gelato, lei, mangiava il gelato, io l’aiutavo, le scartavo il cucchiaino, l’imboccavo, la pulivo, le buttavo via il gelato che non le andava più le tenevo la cialda, a mia figlia piace moltissimo succhiare le cialde, a guardarla mangiare il gelato si direbbe che le piace più la cialda, del gelato, il gelato dopo un po’ la stanca, di cialde ne mangerebbe dei chili.
Quella volta lì, eravamo sulla panchina, dietro la panchina c’era un casco di banane Come mai ci son queste banane? ho pensato, ma non ho detto niente, avevo in mano il gelato che si stava sciogliendo ho tirato giù mia figlia dal passeggino ho incominciato a aiutarla a mangiare il gelato fino a che lei, si è girata, ha visto per terra il casco di banane mi ha chiesto Cosa sono quelle?
Banane, le ho detto.
E perché sono qui?
Non lo so. Le avrà lasciate qualcuno.
E chi le ha lasciate? mi ha chiesto.
Forse le scimmie.
Le scimmie?
Le scimmie.
Mia figlia si è messa a guardare gli alberi poi mi ha guardato mi ha chiesto Le scimmie?
Sì, le ho detto, le scimmie, probabilmente sono sugli alberi che girano quando si stancano che gli calan li zuccheri vengono giù prendono una banana e via, che fanno un altro giro.
Mia figlia mi ha guardato, ha guardato le banane, ha guardato gli alberi, mi ha guardato, Le scimmie? mi ha chiesto.
Sì, le ho detto io, le scimmie. Facciamo piano che ci dev’essere pieno di scimmie, le ho detto.
Mia figlia mi ha guardato, ha guardato gli alberi, ha guardato ancora me, ha fatto una smorfia, è scoppiata a piangere.
Dopo, tutto il pomeriggio ogni tanto mi chiedeva Ci sono le scimmie?
E io No, non ci sono, non ci sono. Era uno scherzo, non ci sono. Vedi una scimmia? Non c’è neanche una scimmia.
Ogni dieci minuti mi guardava, faceva una faccia spaventata mi chiedeva Più scimmie?
Più, le dicevo io, non ci sono. Basta scimmie.
Basta, diceva mia figlia, son tutte morte, diceva.
Il giorno dopo sua mamma mi ha detto al telefono che mia figlia le aveva raccontato che al parco avevamo incontrato un esercito di scimmie che però io le avevo picchiate con dei bastoni erano andate via. Per un mese circa, quando siamo andati dal leone, lei ogni tanto mi chiedeva Più scimmie?
Più, le dicevo io.
Ogni tanto cercavo di convincerla Te non hai paura dei leoni, le dicevo, non ha senso che hai paura delle scimmie. Se vedi una scimmia e le fai Bu, è la scimmia che ha paura di te.
E lei diceva Bu bu bu, e intanto faceva la faccia cattiva.
Brava, le dicevo io.
Un po’ stava tranquilla poi mi chiedeva Più scimmie?
Più. Non ce ne sono più.
Son tutte morte? mi chiedeva lei.
Sono scappate. Son tornate in Africa.
In Africa?
In Africa. Ma questo non c’entra.
Un’altra volta, un mese fa, eravamo a casa sua, adesso è un periodo che c’è molto freddo, è inverno, è raro, che andiam dal leone, quest’inverno ci siam stati solo una volta verso le cinque c’era già buio non c’era nessuno, solo io e l’Irma, si chiama Irma, mia figlia, e ha due anni, e qualche mese, c’eravamo solo io e questa bambina di due anni e pochi mesi che giravamo mano nella mano per questo parco deserto senza scimmie e senza leoni, ma questo non c’entra, un’altra volta, un mese fa, eravamo a casa sua, mia figlia ha cominciato a raccontarmi una storia che lei, nel giardino del suo asilo, dietro degli alberi, ha incontrato degli elefanti che la volevan picchiare lei si è messa a correre fortissimo è arrivata dentro l’asilo si è chiusa dentro si è barricata.
Ma cosa ci facevano degli elefanti nel giardino dell’asilo? le ho chiesto.
Lei mi ha guardato, ha ricominciato a raccontarmi la storia fin dall’inizio. Si agitava moltissimo, raccontando. E poi i giorni dopo me l’ha ripetuta ancora cinque o sei volte in versioni diverse, le ultime volte era lei, che picchiava gli elefanti, ma raccontava sempre con meno interesse, il suo interesse questi ultimi tempi è rivolto a Bazzocchi, al dottor Bazzocchi.
Una volta sono arrivato a casa di mia figlia che lei aveva il catarro doveva andar dal dottore. Allora con sua mamma siamo montati in macchina siamo andati in centro vicino allo studio del dottor Bazzocchi. Quando siamo arrivati la mamma dell’Irma si è fermata per parcheggiare io e mia figlia siamo andati dal dottor Bazzocchi come siamo entrati in sala d’aspetto s’è aperta la porta il dottore ha detto Avanti il prossimo, e il prossimo eravam noi.
Come siam stati dentro l’Irma s’è guardata intorno, ha guardato Bazzocchi, mi ha guardato, Voglio la mamma, ha detto, e è scoppiata a piangere.
Il dottore ha alzato le mani Non ho fatto niente, ha detto.
L’Irma ha smesso di piangere, gnolava solo un po’, quello stato tra il pianto e il non pianto che hanno i bambini.
Io ho indicato all’Irma un orologio a muro con nel quadrante la foto di un bambino Cos’è quello? le ho chiesto.
Un bimbo, mi ha risposto lei.
E piange? le ho chiesto.
No.
E allora te perché piangi?
E lei mi ha guardato senza dir niente. Dopo Bazzocchi l’ha auscultata, l’ha pesata, l’ha misurata, le ha guardato in gola, le ha fatto prima il verso Fai Aah, le ha detto, Aaaaah, ha fatto l’Irma, e Bazzocchi con una lucina le ha guardato la gola le tonsille quello che doveva guardare stavam per uscire che si è sentito bussare, abbiamo visto aprirsi la porta era la mamma dell’Irma, Ciao mamma, le ha detto l’Irma.
Dopo mi ha detto sua mamma che mia figlia si svegliava al mattino diceva Andiam da Bazzocchi? E quando poi me la passava io le dicevo al telefono Come t’ha fatto fare Bazzocchi? e lei mi diceva al telefono Aaaaah.
Dopo una volta qui ultimamente sono arrivato a casa di mia figlia qualcuno le aveva regalato un set con uno stetoscopio, uno strumento per misurar la pressione, una siringa, un martelletto per provare i riflessi un paio di occhiali di plastica e giocavamo a Bazzocchi. Chi si metteva gli occhiali era Bazzocchi e l’altro era l’Irma che si faceva visitare.
A mia figlia delle volte le piace farmi far l’Irma e le piace fare lei il babbo. Quando io faccio l’Irma che lei fa il babbo io le chiedo Posso guardare i Barbapapà?
No, mi dice lei.
Posso mangiare una mela?
No.
Posso bere un succo di frutta?
No.
Posso bere un bicchiere di latte?
No.
Posso bere un bicchier d’acqua?
No.
Posso andare in bagno?
No.
Posso dormire un po?
No.
Fa una faccia da babbo serissima che lo fa bene, mi viene da dire, ma questo non c’entra.
Una volta salta fuori con la storia che Bazzocchi è malato. Come è malato?
È malato.
È venuto a farsi visitare?
Sì.
E cosa aveva?
Il catarrone.
Ha pianto?
Sì.
E quanto deve stare a casa?
Dodici giorni.
Allora dopo gli devi fare il certificato per tornare a lavorare.
Sì.
Te lo scrivo io, le ho detto, e ho preso un foglio ci ho scritto Io, Irma Nori, dichiaro che Bazzocchi è stato curato dalla sua sindrome da catarrone e che può tornare a lavorare in centro a fare il suo mestiere, e poi le ho dato il foglio e le ho detto To’, firma. Ma come firmi, le ho chiesto poi dopo, che non sai scrivere?
Faccio un pesce, mi ha detto l’Irma, e sotto la dichiarazione ha disegnato un pesce. Ma questo non c’entra.
Dopo poi, giovedì scorso, ero lì con lei, lei voleva vedere Barbapapà, io non potevo farglielo vedere, deve vederlo al massimo una volta al giorno, allora lei un po’ si è arrabbiata mi diceva Vai via.
Io ho preso un libro, lei me l’ha tolto di mano mi ha detto Vai via.
Io ho preso in mano un altro libro lei me l’ha tolto di mano mi ha detto È mio, vai via, vai a Parma.
Mia figlia abita a Bologna, io abito a Parma. Ogni tanto mi dice che vuole venire a Parma io sono contento, quella era la prima volta che mi diceva di andare a Parma.
Ho preso in mano un altro libro, lei me l’ha tolto di mano mi ha detto È mio, vai via, vai a Parma.
Io ho aperto il mio zaino, ho tirato fuori un libro, lei ha fatto per togliermelo di mano ha detto È mio.
No, le ho detto io, è mio.
Lei mi si è avvicinata ridendo io le ho dato una spinta le ho detto Vai via.
Lei mi ha guardato, è scoppiata a piangere è corsa da sua mamma Il babbo mi ha mandato via, il babbo mi ha mandato via, diceva.
Dopo sua mamma ha cercato di farci fare la pace solo che c’era poco tempo io avevo il treno dovevo andare non siamo riusciti, a fare la pace. Lei stava aggrappata a sua mamma mi guardava diceva Ho paura. E io mi son messo il cappello il cappotto lo zaino sono andato a casa. Non ero ancora sul treno che stavo malissimo. Ho provato a chiamarla me la son fatta passare che volevo fare la pace solo come fai, a fare la pace al telefono, con una bambina di poco più di due anni.
Per quattro giorni ho pensato che quando mi avrebbe rivisto avrebbe avuto paura di me. Tutte le cose che vedevo che mi facevano pensare a dei bambini pensavo Anch’io, avevo una figlia che eravamo amici, dopo poi abbiam litigato. Adesso lunedì, pensavo, quando mi vede, avrà paura di me.
Dopo lunedì, quando la sono andata a prendere all’asilo, era contenta, di vedermi. Si era già scordata. Siam stati benissimo. Solo una volta che stava spaccando un badile del teatro della Pimpa che le avevo regalato io le ho detto No, forte, e lei ha avuto un tremlone di paura che io le ho detto Ti ho fatto paura?
C’era lì anche sua mamma le ha detto Non devi aver paura del babbo, ha la voce un po’ forte.
Quel pomeriggio, a un certo punto, mia figlia mi ha detto Facciamo le bestie.
Va bene, le ho detto, io che bestia sono?
Un drago, mi ha detto lei.
E io ho fatto il verso del drago Graaaaah. E poi le ho chiesto E te che bestia sei?
Io sono una femmina, mi ha risposto lei.
anche se, secondo me, il problema non è mica quello, cioè secondo me, io, magari mi sbaglio, ma son convinto che sia un bene, che non ci sia più il buon padre di famiglia, ma non vorrei che venisse sostituito dalla buona madre di famiglia, non credo che sia una buona idea, cioè secondo me le cose, forse, si potrebbe cominciare a farle come dice una poesia di Raffaello Baldini, che si intitola in due, e che fa così:
In due: Lo dico sempre anch’io, in due è il massimo, per stare insieme, se vuoi stare insieme, in dieci, in venti, come fai a stare insieme? La gente invece gli piace d’essere in tanti, Eravamo una trentina, senza contare i bambini, e sono contenti, Stiamo insieme, che non vuol dir niente, starai attaccato, non insieme, più siete e peggio è, stare insieme è un’altra cosa, non te n’accorgi? No, non se n’accorgono, per loro, essere in pochi è come non esserci, loro hanno bisogno d’essere in molti, in cento, in mille, in diecimila, in centomila, che io, ci sono stato anch’io, per San Martino, alla festa della Pieva, mangiare, bere, canti, ridi, urli, perché devi urlare, è tutto un urlìo, se no non ti senti, e per loro è allegria, che era un casino, e io lì zitto in mezzo, cosa vuoi che ti dica, mi pareva, ma davvero, d’essere solo, invece in due, tu e lei, la sera, in casa, che a un certo momento spegni la televisione, chiacchieri un po’, lei va di là, torna, sorpresa! due gelati, vuoi crema o cioccolato? poi ogni tanto si esce, si va nei posti, a mangiar fuori, al cinema, il cinema è una roba, come da bambini le favole, si sta lì tutti a sedere, zitti, incantati, se ti viene delle volte da dir qualcosa, dietro c’è sempre uno che protesa: ssst! silenzio! poi, Fine, si accendono le luci, è come svegliarsi, ti alzi, e basta un niente, che le tieni il cappotto, che se l’infila, che la stringi, non molto, solo sentirla.
Ecco, secondo me, forse, si potrebbe provare a andar da quella parte lì, in due, verso l’incanto, che è difficile, mi viene in mente una canzone che cantan le mondine, «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, per amor dei nostri figli, per amor dei nostri figli, in lega ci mettiamo», che a me è una canzone che mi commuove.
Sebben che siamo donne paura non abbiamo, è bellissimo e difficile, esser delle donne, e è bellissimo e difficile essere uomini, e è bellissimo e difficile essere insieme, in due, e è bellissimo e difficile essere vivi.
Io per molto tempo quando mi commuovevo mi vergognavo, non so esattamente perché, ma un po’ dipende dal fatto che quando ero piccolo mi dicevano che gli uomini non piangono. «Gli ometti non piangono», mi dicevano, e mi ricordo ancora la vergogna che provavo quando sentivo dire così.
Be’, io, devo dire, non ci credo più, che gli uomini non piangono.
E non ci credo più per via che qualche mese fa, in una biblioteca di Bologna, ho sentito un grande raccontatore di favole, Faeti, che raccontava di una poesia di Gianni Rodari sul diritto dei bambini di piangere. E da quando ho sentito questa cosa, il diritto dei bambini di piangere, tutte le volte che poi ho sentito un bambino che piangeva, mi è venuta in mente quella poesia di Rodari e ho pensato che quel bambino lì faceva bene, a piangere. E quando quest’estate, a Mantova, ho incontrato Giulia Maldifassi, dell’ ufficio stampa della Feltrinelli che mi ha parlato della mia amica Annalisa, redattrice della Feltrinelli che un anno prima era morta di tumore, a poco più di quarant’anni, con due bambini piccoli, una di cinque e uno di nove anni, un tumore in bocca “Di solito viene agli alcolizzati anziani”, mi aveva detto Annalisa cinque anni prima, quando mi aveva raccontato quello che le stava succedendo, prima della prima operazione che le avevano fatto, gliene avevano fatte poi altre quattro, e lei era praticamente astemia, e aveva, allora, meno di quarant'anni e la cosa che le premeva di più, nel corso della sua malattia, era continuare a lavorare, e aveva lavorato quasi sempre, prima da casa, poi in casa editrice, poi ancora da casa, poi ancora in casa editrice, lavorava in Feltrinelli e avevamo fatto cinque libri insieme e mi aveva ricordato mio babbo, che era morto di tumore ai polmoni nel 1999, aveva quasi settant’anni, e quando pensava a una possibile guarigione, la cosa che lo faceva star bene, era l'idea che sarebbe tornato su un cantiere, mio babbo lavorava sui cantieri, a lavorare coi mandarini, lui i meridionali li chiamava mandarini. E mi piaceva moltissimo il modo in cui la mia amica Annalisa aveva parlato, in questi anni, del suo tumore. Era come se, con l'accanirsi della malattia, si accanisse anche lei, sempre di più, nella sua resistenza, e mi aveva fatto venire in mente (e gliel'avevo detto, una volta) quando nella Leningrado assediata dai nazisti c'era stata, il 5 marzo del 1942, la prima della settima sinfonia di Šostakovič.
Come per dire: “Voi ci assediate? Voi pensate di ridurci alla fame? E noi ci mettiamo i nostri vestiti migliori, e andiamo nel nostro migliore teatro a sentire eseguire dai nostri migliori musicisti l'ultima sinfonia del nostro migliore compositore”.
E quando Giulia Maldifassi mi aveva parlato di Annalisa, e mi aveva detto una cosa bellissima, che mi aveva riempito gli occhi di lacrime, poi mi ricordo mi ha detto «Non volevo farti piangere», e io mi ricordo le ho detto «No, io ho diritto, di piangere», e questa cosa gliel’ho detto per via di quella poesia lì di Rodari, perché io, devo dire, le poesie, e i romanzi, secondo me, io non pretendo che sia così per tutti, ma se devo dire, da un punto di vista individuale, per me sono quelle le cose che cambiano i miei comportamenti, non le leggi, non i regolamenti, non i governi, non i parlamenti, no, le poesie e i romanzi che mi muovono da dentro di me.
Qualche mese, fa per esempio ho visto Diario di un pazzo, di, al Teatro Parenti, di Milano, il racconto di Gogol’, messo in scena da Roberto De Francesco per la regia di Andrea Renzi, e ha ricominciato a muoversi nella mia testa una frase che vive con me da una ventina d’anni: «E tutto questo, credo, succede perché gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalle parti del mar Caspio».
E quando poi, in quello stesso periodo, per via del fatto che ho studiato russo, mi hanno chiesto un commento sulle elezioni russe, in Russia si è votato, l’anno scorso, e hanno rieletto Putin, a me è tornata in mente una cosa che ci era arrivata, nella mia testa, pochi giorni prima, cioè che io, in Emilia, non ero governato dalla giunta regionale emiliana, né dalla giunta comunale di Casalecchio di Reno, che è il posto dove abito, né son stato governato da quella di Parma, che è il posto dove ho abitato per tantissimo tempo. Io, a ripensare al “Maestro e Margherita” di Bulgakov, che nelle prime pagine c’è una signora che ha un chiosco di bevande nel centro di Mosca e apre due succhi di albicocca e intorno si spande odore di parrucchiera, e io, da quando ho letto quella cosa lì, tutte le volte che sento odore di parrucchiera penso al “Maestro e Margherita”, e se non avessi letto “Il maestro e Margherita” probabilmente non avrei mai riconosciuto, nella mia vita, l’odore di parrucchiera, o a ripensare alle poesie di Chlebnikov, e “le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore”, o alle cose che ha scritto Charms, e “quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono, e se ci sono i denti, non è un uccello”, o alle opere di Learco Pignagnoli, filosofo emiliano, e a tutte le volte che mi è tornato in mente che “tranne me e te, il mondo è pieno di gente strana, e poi anche te sei un po’ strano”, a me mi è venuto da pensare che io, invece che dai vari governi Pentapartito o monocolore che si dice si siano alternati alla guida del paese negli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza, io, piuttosto che da loro, sono stato governato da Bulgakov, da Chlebnikov, da Charms, da Mandelstam, da Blok, da Puskin, da Anna Achmatova, da Lev Tolstoj, da Gogol’, da Dostoevskij, da Venedikt Erofeev, da Josif Brodskij, da Learco Pignagnoli, da Ivan Gončarov, e sono stato, a volte, per degli attimi, per dei giorni, per dei mesi, un suddito felice e riconoscente. Allora per me, e per qualche altro emiliano, penso, e magari anche per qualche non emiliano, un evento politico più importante delle elezioni di Putin sarebbe che qualcuno, da qualche parte, in Russia, o in Ucraina, a Kaluga, o a San Pietroburgo, o a Rostov sul Don, o a Volgograd, di notte, nel suo appartamento ancora sovietico, uno o una che non sappiamo neanche come si chiama, e che fa, probabilmente, un mestiere normale, come ispettore delle mense scolastiche, o pettinatrice, o qualcosa del genere, sarebbe importante che continuasse a scrivere il romanzo al quale sta lavorando da dei mesi, che continuasse a rubare tempo al sonno per tirare fuori dalla sua pancia il romanzo destinato a governarci, noi emiliani, per i prossimi anni, e a fare di nuovo, di noi emiliani, e forse di qualche altro non emiliano, dei sudditi felici e riconoscenti, speriamo, speriamo.
E per dire l’ultima cosa su quell’universo lì femminile, quello delle cucine, io in casa mia i lavori da donna li facevan le donne, a casa mia li faceva prevalentemente mia nonna e io mi ricordo, avrò avuto dodici anni, una volta che mia nonna dopo pranzo era andata a dormire io avevo pensato di farle una sorpresa di lavare i piatti lei quando poi si è svegliata che ha visto cos’era successo mi ha guardato Non azzardarti mai più a fare una cosa del genere, mi ha detto.
Allora io, per me, fare i mestieri da donna, che mi attiravano, quell’universo lì della cucina, però ho sempre avuto vergogna, io mi ricordo una volta, eravamo andati a Bergamo a un seminario di russo, eravamo in cinque in un appartamento, facevamo i turni per lavare i piatti, io mi ricordo quando toccava a me mi veniva su una vergogna, aspettavo che uscissero tutti dalla cucina non volevo che mi vedesse nessuno.
Poi un’altra volta, sempre a lavare i piatti, avevo appena firmato il primo contratto con l’Einaudi, io mi ricordo stavo lavando i piatti avevo pensato “Guarda, uno che adesso tra poco pubblica con Einaudi, guardalo qua che lava i piatti. Che umiltà”, avevo pensato, poi mi ero fermato un attimo nel mio lavare avevo pensato “Ma sei deficiente?”. Poi una terza volta, mi ero appena lasciato con la mamma di mia figlia, ero andato ad abitare da solo, senza donne, avevo comprato una lavatrice, avevo vinto quella paura dei lavori femminili, dovevo farli io se no non li faceva nessuno, io mi ricordo dopo qualche mese che avevo la lavatrice, vedere che ero capace, di lavare i panni, io mi ricordo ero così contento, avevo maturato un affetto, per la mia lavatrice, che una volta sono andato in bagno le ho dato una volta sono andato in bagno le ho dato una carezza. Ecco. Non so perché ho detto queste cose, però ormai le ho detto.
E un’altra cosa che voglio dire è anche questa è una cosa che ho anche scritto, e che ripeto spesso, se qualcuno l’ha già sentita porti pazienza, e è una cosa che mi è tornata in mente una volta che, a Bologna, sono andato a presentare un romanzo su uno che era intossicato dalla playstation e mi venuto da dire, che io, che sono nato nel ’63, quando ho avuto vent’anni che era il momento di entrare nel mondo il mondo era forse un po’ diverso da quello delle generazioni precedenti. Che quelli che son nati negli anni venti, avevo detto, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, han dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che son nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, han dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che son nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, han dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che son nati negli cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, han dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi siamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni, avevo detto.
Mi sembra che noi siamo la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.
Cioè era come se il mondo, avevo detto, che per i nostri genitori era stata una cosa da fare, da costruire, per noi fosse già fatto, preconfezionato, e l’unica cosa che potevamo fare era mettere delle crocette, come nei test e allora aveva anche senso, avevo detto, che proprio in quel periodo lì, negli anni ottanta, fossero comparsi in Italia i giochi elettronici, perché uno di vent’anni che passava sei o otto ore al giorno a giocare ai giochi elettronici, che negli anni cinquanta sarebbe stato un disadattato (Sei un delinquente, gli avrebbero detto i suoi genitori), a partire dagli anni ottanta andava benissimo, perché rispondeva al compito precipuo della sua generazione, di stare tranquillo e non rompere troppo i maroni.
Ma la cosa incredibile, non era tanto quella, quanto il fatto che noi, a fare il mondo, ci abbiamo rinunciato. Ci siamo accontentati del nostro angolino, caldo, pulito, e adesso, che son passati altri trent’anni, e sono arrivati quelli che son nati negli settanta, e avevan vent’anni negli anni novanta, e si sono accomodati anche loro tranquilli senza rompere troppo i maroni, e sono arrivai quelli che son nati negli anni ottanta, e avevan vent’anni negli anni zero, e si sono accomodati anche loro tranquilli senza rompere troppo i maroni, adesso tra poco arrivano quelli nati negli anni novanta e he hanno vent’anni negli anni dieci, e chissà cosa faranno. E l’impressione che ho io, che da quando avevo vent’anni io non sia cambiato molto (se non il fatto che quando lavoravo io, a sedici, diciassette, vent’anni, c’era una strana abitudine che mi pagavano), e che quelli che hanno la nostra età, la mia età, quarantanove, ma anche quelli che son venuti dopo, diciotto o diciannove, il nostro strumento, la nostra leva per farci spazio, nel mondo, per noi non sia più, com’è stato per le generazioni precedenti l’entusiasmo, o il dovere, o il senso di sacrificio, o la speranza di un mondo migliore o non so cosa, no. Noi, la nostra leva, quello che ci costringeva a entrare nel mondo, per noi, era la disperazione. Ma quella forza lì, la disperazione, che per il singolo è una forza potentissima, per tanti non lo so, se va bene, e io, che credo di sapere cosa devo fare io, con mia figlia, con mia mamma, con la mia innamorata, con i miei due fratelli, con i miei nipoti, con le mie due gatte, così belle, dire cosa dobbiamo fare noi, io, vi confesso, nemmeno facendo ricorso alle mie qualità di deficiente assoluto, non ci riesco mica, e la cosa che mi viene da fare, per chiudere questo discorso, che in qualche modo bisogna chiuderlo, dopo aver ringraziato ancora per l’invito, io volevo finire con una cosa, piccola, che dicono dicesse sempre Joe Strummer, il leader dei Clash, che era un gruppo punk che aveva come slogan la frase «The future is unwritten», «Il futuro non è scritto», e lui, Strummer, gli ultimi anni della sua vita dicono che dicesse sempre «Ricordiamoci che siamo vivi», ecco, ecco, ecco: ricordiamocelo.
State bene.
Ecco, tutte le volte che ti leggo, quando ho finito, penso: Ma come si fa a non volere bene, a Paolo Nori. E tutte le volte che leggo o ti ascolto raccontare della cucina della casa di Basilicanova mi sembra di esserci anch'io, lì, a pulire i cornetti con tua nonna e le sue amiche a far chiacchiere. E quando ho ascoltato Due volte che sono morto, ho pensato che sono fortunata che tu non sia morto, alla fine, perché leggerti e ascoltarti mi fa star bene.
Questa La Lavatrice, per me, è un così bello scritto che mi sono talmente convinto di non averlo finito di leggere, che ho ho dovuto assolutamente rileggerlo.