L’altro giorno, da Gramellini, mi hanno chiesto di dire cosa pensavo della parola Antifascista, a me è venuto da dire che, quando ero piccolo la parola antifascista io la sentivo dire prevalentemente dai politici, che si dichiaravano tutti antifascisti, era una parola gonfia di retorica.
Quando poi, nel ’94, è comparsa Forza Italia, i cui leader hanno smesso di andare in piazza il 25 aprile, questa cosa ha rivitalizzato la parola antifascista e io, per la prima volta nella mia vita, ho preso la tessera dell’Anpi, ho detto, e adesso, tutto gli anni, sono così contento che c’è il 25 aprile.
Dopo, l’antifascismo, nella mia testa, per via di un signore che si chiama Giuseppe Bianchetti, ha a che fare coi cappotti, che è un tema, il cappotto, che chi si occupa di letteratura russa ha ben presente per via del racconto di Gogol’ dove rubano il cappotto a Akakij Akakevič.
Giuseppe Bianchetti, invece, è un operaio trentaquattrenne di Montescheno, in provincia di Novara, autore di una delle lettere dei condannati a morte della resistenza che fa così:
«Caro Fratello Giovanni, scusa se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia lettera. Non posso nasconderti che fra mezz’ora sarò fucilato; però ti raccomando le mie bambine di dar loro il migliore aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine.
T’auguro a te e a tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello
Giuseppe.
C’è un poscritto:
Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletot e ciò che resta. Ciau tuo fratello».
Nel suo saggio su Leskov, Walter Benjamin dice che, quando si sta per morire, l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle espressioni e negli sguardi del morente e conferisce a tutto ciò che lo riguarda l’autorità che anche l’ultimo degli uomini possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. Questa autorità, scrive Benjamin, è all’origine del narrato, e quest’autorità, credo, fa sì che il paletot di Bianchetti Giuseppe sia memorabile come il cappotto di Akakij Akakievič.
State bene.
Memorabile come il cappotto che mio nonno si fece cucire trasformando la coperta di un campo di prigionia tedesco. Quando lui e i suoi compagni poterono fare ritorno in Italia a piedi da Norimberga, portarono con sé tutto quello che poteva diventare merce di scambio lungo il percorso e poco altro. L'unica cosa a cui mio nonno non rinunciò fu quella coperta che in seguito divenne un cappotto.
A me piace di più paletò, come dicono a Parma. A proposito di questa città, mi piace ricordare la lettera di Giordano Cavestro, a cui è intitolata la via dov'è (ancora?) la segreteria dell'Università, semplice e piena di passione come può scriverla un ragazzo di diciannove anni prima di essere fucilato