26. Le ragazze
Un’altra poesia di Chlebnikov, quella che parla di mia figlia e della mamma di mia figlia; fa così:
XV
Le ragazze, quelle che camminano,
con stivali di occhi neri
sui fiori del mio cuore.
Le ragazze, che hanno abbassato le lance
Sul lago delle proprie ciglia.
Le ragazze, che si lavano i piedi
Nel lago delle mie parole.
27. Dichiarazione
Che a me ricorda, questa poesia di Chlebnikov, una poesia di un poeta vivente, nato nel 1955, osseta Timur Kibirov, e la poesia si intitola DICHIARAZIONE, fa così:
XVI
DICHIARAZIONE
Ti voglio dire,
che ti voglio
dire, che ti
voglio dire, che
voglio dirti, che
ti voglio dire,
che ti voglio.
28. Possibile
Da qualche mese non mi esce dalla testa una cosa che ha scritto il filosofo francese Gilles Deleuze, che già questa è una cosa strana perché io di filosofia ne so pochissimo e Deleuze non l’ho mai letto, ma la cosa di Deleuze che non mi esce dalla testa l’ha messa in epigrafe un mio amico di Modena, Ugo Cornia, al suo primo romanzo, Sulla felicità a oltranza, e praticamente dice, Deleuze: «Un po’ di possibile, se no soffoco».
Che a me ha fatto pensare a certi libri che ho incontrato da ragazzo, come L’idiota, di Dostoevskij, o Lo straniero, di Camus, o Uno nessuno e centomila, di Pirandello, e la conseguenza dell’incontro con questi libri, ha fatto aumentare, intorno a me, il possibile.
Hanno costruito delle crepe nella orribile vita da adolescente di provincia impaurito che ero, mi hanno detto che fuori dai confini della mia stanza, delle mia città, della mia regione, dei miei taboo, delle mie paure, c’era un mondo di persone deboli e forti, buone e cattive, simpatiche e insopportabili come avrei potuto essere anch’io.
E l’incontro con la donna a cui Kibirov fa la sua dichiarazione, con la ragazza, quella che cammina, con stivali di occhi neri, sui fiori del suo cuore, con tutte le ragazze e i ragazzi che incontriamo nelle nostre vite e, quando andiamo letto, il giorno che li abbiamo incontrati, ci diciamo «Ma vuoi vedere che…» e poi ci diciamo «Ma no, ma dài, ma cosa vai a pensare», ecco quei momenti lì, in cui maturano le nostre terribili, imbarazzanti, goffe dichiarazioni, sono momenti che aprono una crepa nella nostra incapacità di stare al mondo e preparano altri possibili, altri disastri, altre meraviglie, altri orrori, altre benedizioni.
E sono quei momenti che, finalmente, chissà perché, chissà come mi proprio in quel momento lì, abbiamo il coraggio di dirci, come il protagonista di una poesia di Raffaello Baldini, Voglio proprio vedere cosa vuole succedere.
29. Cosa stavo dicendo (questa antologia)
Faccio un discreto numero di interventi pubblici, da quando ho cominciato a pubblicare dei libri, nel 1999. Questi interventi pubblici, nel corso degli anni, sono cambiati.
Nei primi quindici anni, leggevo; se dovevo presentare un libro sceglievo dei brani e li leggevo, se dovevo fare un intervento a un convegno o su un tema particolare mi scrivevo un discorso e lo leggevo.
Non mi fidavo, di parlare a braccio; siccome a me, quando ragiono, e quando parlo, succede spesso di aprire delle parentesi, e poi, quando chiudo la parentesi, spesso non mi ricordo quello che stavo dicendo, avevo paura che succedesse una cosa del genere, che, devo dire, è successa, qualche volta, avevo paura dell’imbarazzo, della brutta figura, e mi scrivevo tutto prima, così ero sicuro.
Adesso, questi ultimi anni, mi piace molto di più parlare a braccio, perché a me piace quella gente lì, che quando comincia un discorso non sa bene come lo finirà; c’è un attore italiano, si chiama Fabrizio Bentivoglio, quando parla sembra sempre che abbia finito e invece sono delle pause lunghissime, e le cose che dice poi dopo, dopo che ti sembra che abbia finito, sono di solito le più interessanti; mio babbo, che si chiama Renzo, parlava così, con delle pause lunghissime, e io, un po’, parlo così, e mi piace, mi piace quando comincio una frase, e non so come la finirò, e quando devo fare un incontro pubblico su una materia che conosco, come, per esempio, un romanzo che ho scritto io, o su come scrivere un romanzo pseudo autobiografico, che è una cosa che faccio da circa trent’anni, lo sforzo principale che faccio, prima di un incontro del genere, è non pensare a quello che dirò, e se, parlando in pubblico, apro una parentesi e poi, quando la chiudo, non mi ricordo più di cosa stavo parlando prima della parentesi, dico, di solito: «Mi sono dimenticato cosa stavo dicendo, cosa stavo dicendo?», e di solito il pubblico ride e qualcuno mi ricorda cosa stavo dicendo e andiam poi avanti.
Quando scrivo i libri, uguale.
E quando scrivo le antologie, uguale, ho scoperto scrivendo questa antologia, che mi sembra un’antologia che non sembra tanto un’antologia, e la cosa non mi dispiace; c’è un poeta italiano al quale ho dedicato un romanzo, Raffaello Baldini, che una volta, nel ravennate, alla fine di un recital delle sue poesie una signora si è avvicinata all’attore che aveva letto le poesie, Ivano Marescotti, e gli aveva detto «Ma come mi sono divertita, ma son così belle, ma così belle, che non sembran neanche delle poesie» e a me piacciono quelle cose lì, le poesie che non sembrano poesie, i romanzi che non sembrano romanzi, le antologie che non sembrano antologie, poi, mi rendo conto, non piacciono a tutti, pazienza.
E questa antologia, io quando ho cominciato a lavorarci, l’ultima cosa che pensavo è che diventasse come sta diventando, ammesso che stia diventando qualcosa, adesso vediamo.
State bene.
Che bella cosa ha scritto sulle crepe, sull'imbarazzo di perdersi in un discorso, sulle cose che assomigliano ad altre cose. Le imperfezioni, le anomalie sono la vera meraviglia della vita. Grazie🙏
ecco, io mi metto tra quelli a cui piacciono molto "le poesie che non sembrano poesie, i romanzi che non sembrano romanzi, le antologie che non sembrano antologie". Grazie, di cuore e stai bene anche tu!